Buon pomeriggio Lettori!
Ci sono libri che fanno giri immensi e poi arrivano tra le nostre mani, senza un motivo o con un senso di stupore.
L’anno in cui imparai a leggere è uno di quelli. Un libro che ho schivato quando tutte le mie amiche lo divoravano, complice anche un fattore per me non indifferente: il pianto.
Normalmente quelle storie che fanno piangere, che commuovono, spesso commedie italiane piene di retorica a me non fanno impazzire e di solito mi lasciano totalmente indifferente, senza scalfire il mio cuoricino di pietra. Ripensando a libri letti anche solo poco più di un anno fa, mi rendo conto che certe situazioni le digerisco poco e quindi tendo a tenermi lontana da tutte queste storie.
Vabbè che preambolo!
Il punto è che ho consigliato L’anno in cui imparai a leggere a un mio amico, complice il parere super positivo di Laura (La Libridinosa) e dopo averlo finito, lui e la sua fidanzata me l’hanno regalato al compleanno con testuali parole: “Lo devi legge De‘”.
Oh e alla fine l’ho letto.
Mi sarà piaciuto?
L’anno in cui imparai a leggere
Marco Marsullo
Einaudi
Prezzo: 18.00 €
eBook: 9.99 €
Trama: Niccolò ha venticinque anni ed è innamorato perso di Simona. Cosí quando lei, bella e inquieta, parte mollandogli suo fi glio Lorenzo, lui decide di prendersene cura, sebbene quel moccioso di quattro anni non lo abbia mai accettato e di notte lo sbattesse puntualmente fuori dal letto. Niccolò non ha mai fatto il padre, e non sa come gestire capricci, routine, amichetti che giocano a fi ngersi d’improvviso morti e primi batticuori. In piú, a complicare le cose, ci si mette anche il padre naturale. Riccioli scompigliati e chitarra in spalla, è arrivato dall’Argentina per incontrare il piccolo, e si è installato in casa senza alcuna intenzione di andarsene. Innamorati della stessa donna, lui e Niccolò si detestano, e il bambino non riconosce un ruolo a nessuno dei due. Eppure, giorno dopo giorno, tra litigi e partite a pallone, pigiama party e impreviste abitudini, questi tre «ragazzi» abbandonati imparano ad appoggiarsi l’uno all’altro, per sorreggersi insieme contro il mondo.
I bambini, quando ti regalano un metro, te ne chiedono in cambio due. A differenza dei cuccioli delle altre specie, non basta farli giocare e fargli le coccole. Devi dargli ogni cosa, la leggerezza e l’intensità, la serietà e la sincerità più grande che puoi. Tutto ciò che non sei mai riuscito neanche a dare a te stesso.
L’anno in cui imparai a leggere di Marco Marsullo è un libro che mi è piaciuto, ma non mi ha portato alle fantomatiche lacrime. Sorry.
Non credo l’autore impazzirà per questo commento, ma credo sia ormai noto lo scarso lavoro dei miei dotti lacrimali. C’è la siccità.
Il libro mi è piaciuto, lo dico subito e senza ulteriori preamboli, perché la storia, nella sua assurda cornice, funziona e ingrana sempre al momento giusto.
È il libro ideale per me? Probabilmente non lo avrei mai scelto da sola, ma alla fine è stato bello leggerlo in questo periodo perché mi ha fatto ridere, tanto, e in questi giorni credo sia davvero importante.
Leggendo diverse recensioni in giro, ho notato una costante, ovvero l’aver letto questo libro in pochissime ore, divorandolo perché presi dalle emozioni. Io invece sono andata controcorrente e ho letto questo libro in forse più di una settimana. Giorni di assenza, giorni di tante pagine e alla fine sono arrivata all’ultima parte.
Come riassumere questa storia? (Scusate, questa cosa volevo proprio farla)
Abbiamo Simona, madre modello e best mom of the year, che lascia il figlio con un uomo che conosce da tre mesi (d’altronde Niccolò ha venticinque anni e la faccia da bravo ragazzo, vuoi che tuo figlio di quattro anni non sia contento per questa scelta?), per unirsi alla compagnia teatrale di questa fantomatica Eleonora. Il venticinquenne in questione, che tutto si aspettava tranne questo, si ritrova con un bambino di quattro anni, una vicina di casa fuori di testa, il migliore amico del bambino che finge spesso il suicidio (roba da studiare nelle migliori facoltà di psicologia) e dulcis in fundo, con l’arrivo del papà vero del quattrenne, un argentino che si stabilisce in casa loro (che però è della madre sciagurata) che parla metà spagnolo, metà italiano e suona la chitarra senza mai finire una canzone.
Ovviamente il preambolo porta a una serie di situazioni a volte ai limiti dell’assurdo, che però riescono a strappare più di qualche risata al lettore. È un libro che vuole aprire una finestra sul mondo dei bambini e lo fa con Niccolò e lo sguardo a volte triste e a volte sorridente di Lorenzo, vittima di una madre un po’ sciagurata (e sono quasi gentile eh).
Il bello però sta nella routine che si viene a creare anche con Andrés, che all’inizio proprio non sopportavo e che invece mi ha fatto fare risate su risate, al punto che nella mia testa lo sentivo parlare spagnolo (Che, tano, qué pasa?), oltre alle scenette a Monteforte o quelle indimenticabili di Pedro Man e i Superfriends (loro meriterebbero una recensione a parte. Infernal Manichino sei il mio mito!).
– Ma ti rendi conto? – gli dissi, indicando il monitor.
– Qué? – si sporse verso il video.
– Fa schifo! Ed è l’idolo di milioni di bambini!
Andrés si concentrò sulla scena e, quando Pedro Man produsse un colossale rutto dopo un sorso della sua bibita a base di uovo, scoppiò a ridere pure lui.
– Nooo! Genial! – gridò, mettendosi le mani in quel nido di ricci crespi. – Genio total!
Ero solo.
Quindi, come cerco di spiegarvi sopra, la storia nel complesso mi è piaciuta, con quei momenti esilaranti che hanno fatto da contrappeso a quelli più tristi, soprattutto quando per Lorenzo si sente pesante l’assenza della madre.
I personaggi hanno degli alti e bassi. Lorenzo è sempre un bambino, com’è giusto che sia, e ringrazio l’autore per non averlo reso uno di quei geni con la mentalità di un trentenne. È un bambino di quattro anni, con i suoi perché, con i cartoni animati del cuore, la letterina a Babbo Natale con una lista infinita e il desiderio di rivedere la madre.
Niccolò mi è piaciuto a tratti. All’inizio, gli mancava un po’ di carattere, poi però riesce a mostrarsi al lettore e sa conquistare, con le sue paure e le sue pagine bianche su un vecchio computer portatile.
Su Andrés credo di aver già detto abbastanza, perché altro vi toglierebbe il gusto di scoprire questo soggetto sicuramente particolare, in grado di far uscire il lato divertente di Niccolò.
Come trio funzionano decisamente bene.
Probabilmente la cosa che mi ha convinta di meno è proprio l’inizio. Dovrei informarmi forse, ma davvero si può lasciare così un figlio a uno sconosciuto?
In realtà, quello che più ho mal sopportato è stato il poco imporsi di Niccolò verso Simona, di fronte alle scelte di questa donna che, è vero, rischia di non veder realizzati i suoi sogni, ma abbandona il figlio con quello che effettivamente è uno sconosciuto, fregandosene anche dei sentimenti del bambino.
Altri elementi mi hanno poco convinto, come le spiegazioni sul ritorno di Andrés e anche una questione particolare citata a un certo punto. Ecco, diciamo che ne avrei fatto a meno.
È un libro scorrevole, che tiene compagnia e promette risate e probabilmente anche pianti in caso di dotti lacrimali funzionanti e maggior propensione all’emozione, tuttavia funziona, anche nel finale sicuramente meno prevedibile di altri scenari decisamente più banali.
Sicuramente un libro che mi ha piacevolmente tenuto compagnia.
Voi lo avete letto?